Pietre d'inciampo Milano - Biografia

Gino Emanuele Neppi

Gino Emanuele Neppi, fotografia con dedica autografa all'amico e collega Marcello Cantoni, principale collaboratore dell'ambulatorio, Archivio Fondazione Centro di documentazione ebraica, Milano, fondo Marcello Cantoni, b. 10, fasc. 44

Gino Emanuele Neppi


Nato il 17/07/1890 a Ferrara
Arrestato a Milano il 06/11/1943
Morto a Auschwitz il 31/08/1944

Motivo dell'arresto: persecuzione razziale


Anno di posa della pietra: 2019
Detenzione: S. Vittore
Deportazione: Auschwitz
Trasporto: 12 (partito da Milano il 06/12/1943, arrivato a Auschwitz il 11/12/1943)

Pietra in Via Ruggero Boscovich, 30
Richiesta da Carla Neppi Sadun

Gino Emanuele Neppi (Ferrara 1890), medico ebreo molto attivo nell’ambiente comunitario che gestì l’ambulatorio dedicato agli ebrei profughi fino all’occupazione nazifascista di Milano.

“Abbiamo appena incominciato e dobbiamo fare ancora quasi tutto, con mezzi inadeguati e in condizioni così precarie da non poter fare alcuna previsione.”
G.Neppi, ordine di servizio agli operatori dell’ambulatorio, aprile 1940

Fronte: ricetta di Gino Neppi per una paziente. Retro: elenco dei dispensari che distribuiscono medicinali. Archivio Fondazione Centro documentazione ebraica contemporanea, Fondo Israel Kalk, b.1, fasc.3

La giovinezza

“Ognuno di noi deve sempre aver presente che il suo attuale lavoro, non è solo di responsabilità professionale, ma lo impegna molto più a fondo e lo obbliga a non abbandonare il suo posto, qualunque sacrificio questo possa costargli. Per ciò mi impegno di restare ultimo di tutti voi”[1]. Con queste parole, quasi un tragico presagio, Gino Emanuele Neppi si rivolgeva alla vigilia della Pasqua del 1940 ai suoi collaboratori dell’ambulatorio medico per ebrei profughi appena aperto a Milano di cui egli era stato nominato direttore.

Gino Emanuele Neppi era nato a Ferrara il 17 luglio 1890 da Clemente ed Emma Bassani, ultimo di quattro fratelli, da una famiglia ebraica agiata e ben inserita nel tessuto cittadino. Conseguito il diploma di veterinario partecipò alla Prima guerra mondiale come ufficiale veterinario e venne decorato con la croce al merito.  Alla fine della guerra riprese gli studi e si laureò in medicina specializzandosi in ginecologia ed ostetricia. Si sposò con Ginevra Minerbi ed iniziò a lavorare come medico.Alla fine degli anni ‘20 si trasferì a Milano con la moglie[2] dove già viveva la sorella Bice, docente universitaria di chimica e, dopo aver lavorato in vari comuni limitrofi, dal settembre del 1932 fu assunto come medico condotto dal Comune di Milano diventando anche molto attivo in ambiente comunitario.
Le leggi razziali

Con l’avvento delle leggi razziali Gino Neppi, in quanto dipendente comunale, venne licenziato a partire dal primo gennaio 1939. Neppi chiese la discriminazione, che gli fu concessa poiché era stato insignito della croce al merito[3] e che gli consentiva di poter continuare a seguire anche i pazienti non ebrei che lo avessero voluto; ottenne poi che la discriminazione venisse estesa anche alla moglie Ginevra.  la quale a sua volta si era rivolta a più riprese alle autorità per poter tenere presso di sé una donna di servizio a causa delle precarie condizioni di salute[4].

Nei mesi di incertezza e angoscia rispetto al futuro che seguirono l’emanazione delle leggi razziali i coniugi Neppi avanzarono nel marzo del 1940 un’insolita istanza chiedendo che i terreni eccedenti la quota che ogni singolo ebreo poteva possedere, in questo caso Ginevra, fossero intestati ai figli nascituri. Ebbe inizio una fitta corrispondenza fra Ministero delle Finanze e Direzione generale per il coordinamento tributario al termine della quale venne data risposta negativa poiché i figli non erano ancora nati e solo una volta venuti al mondo si sarebbe potuto fare istanza[5].

Gino Neppi continuò ad esercitare come medico sia per gli ebrei che anche, in quanto discriminato, per i non ebrei che erano disponibili ad affidarsi alle sue cure. La deposizione che fece nell’ottobre del 1944 la signora Linda Mariani conferma che ci furono pazienti non ebrei che continuarono a farsi curare da lui: “La sottoscritta [...] sinistrata nella casa di Corso Genova 1, durante l’incursione aerea nemica del 16 agosto 1943, fu ospitata il giorno 16 stesso nell’appartamento dell’israelita Dottor Gino Emanuele Neppi - proprio medico curante - sito in via Boscovich 30, insieme alla sorella Adalgisa ed al cognato Ferrari Lorenzo, pure essi sinistrati nella casa di via Scarlatti 5, nel corso dell’incursione del 13 agosto 1943”[6]
L’ambulatorio

Profondamente legato alla vita comunitaria Gino Neppi ebbe un ruolo fondamentale nell’apertura dell’ambulatorio medico dedicato ai profughi ebrei, una delle tante attività portate avanti dalla Delegazione per l'assistenza agli ebrei emigrati (Delasem). La Delasem, attiva dal dicembre 1939 presso le principali comunità italiane aveva due punti programmatici fondamentali:

“- facilitare con ogni mezzo la emigrazione dall’Italia degli ebrei stranieri che ancora si trovano nel Regno
- porgere agli stessi tutta l’assistenza necessaria durante il tempo che ancora, in attesa di emigrazione, sono costretti a rimanere in Italia”[7]


Grazie ai contatti con i suoi ex colleghi ed in particolare all’impegno del professor Carlo Alberto Ragazzi, ufficiale sanitario di Milano e suo ex superiore, Neppi riuscì ad aprire un ambulatorio medico nell’aprile del 1940 in via Panfilo Castaldi 27: la mattina vi lavorava un medico condotto dipendente dal Comune e nel pomeriggio era attivo l’ambulatorio per i profughi ed ebrei indigenti diretto da Neppi stesso e nel quale operarono molti medici ebrei esclusi dai loro posti di lavoro. Fra questi Oscar Benarojo e Ephraim Chaimson, medici generici, l’infermiera Elena Reichmann e anche alcuni specialisti come l’oculista Nathan Cassuto, che venne deportato ad Auschwitz pochi giorni dopo Neppi.

Marcello Cantoni, allora giovane pediatra e principale collaboratore di Neppi, ricordando nel dopo guerra questa attività riferisce che Neppi aveva insistito con Ragazzi sull’importanza di aprire l’ambulatorio per evitare che si diffondessero epidemie[8]. È probabile che Neppi fosse consapevole che tale rischio non fosse così elevato, ma era viceversa convinto che fosse fondamentale garantire il diritto alla salute di tutti coloro che, spesso in pessima situazione economica, erano costretti a sostare per un tempo indefinito in città in attesa di riuscire a lasciare il paese. Egli era certamente anche consapevole che tale presenza accresceva l’antisemitismo, volutamente alimentato in quei mesi dal Governo, per distogliere l’attenzione della popolazione dai venti di guerra. Rendere meno visibile il disagio degli ebrei indigenti significava anche reagire a questa situazione.

Non è possibile ricostruire con esattezza quante visite venissero fatte al giorno, nel quarto ordine di servizio scritto da Neppi ai suoi collaboratori egli insiste molto sull’importanza di aiutare più persone possibile: “La rapidità è l’unico mezzo per ottenere un’assistenza medica la più vasta possibile, anche se solo apparentemente superficiale. [...] Non bisogna confondere la rapidità con la trascuratezza: sul libro diagnosi, devono sempre essere segnati con chiarezza anche grafica, i dati segnaletici del malato, il motivo di sofferenza che lo conduce a chiedere la nostra assistenza, la diagnosi presunta e la cura [...] I malati dovranno essere trattati tutti con eguale dolcezza e comprensione del proprio stato, qualche volta penoso; ma senza smancerie”. Altrettanto esplicito era il richiamo alla necessità di risparmiare: “Circa la somministrazione dei medicinali ed il consumo del materiale di ambulanza, deve essere sempre usata la più stretta economia, pensando che i nostri mezzi sono limitatissimi in confronto alle enormi richieste alle quali ci siamo sempre impegnati di poter sempre corrispondere nel modo migliore”. Con forza era sottolineata l’importanza dell’equità di trattamento. “Le prestazioni mediche in Ambulanza devono sempre essere uguali per tutti, anche se il malato che voi visitate è un vostro conoscente o parente; questo soprattutto perché la più alta equità e giustizia distributiva deve essere sempre osservata da tutti per mantenere intatta la fiducia nel medico che lo cura”.

L’insistenza sulla necessità di non perdere tempo in commenti inutili era certamente legata alla necessità di aiutare tanti pazienti, ma anche probabilmente alla consapevolezza che ogni commento antigovernativo poteva mettere in pericolo l’attività stessa dell’ambulatorio.

Nell’ordine di Servizio del 21 aprile 1940 Neppi si rivolgeva ai propri collaboratori lasciando emergere tutte le difficoltà e la precarietà della situazione, ma anche l’energia che animava il suo impegno: “Abbiamo appena incominciato e dobbiamo fare ancora quasi tutto, con mezzi inadeguati e in condizioni così precarie da non poter fare alcuna previsione. Tuttavia di questo bisogna aver la forza di non parlarne, anzi di non pensarci neppure. Basta oggi superare ad uno ad uno gli ostacoli che si presentano. Penseremo domani a quello che dovremo fare poi. Le nostre possibilità verranno decuplicate quando ci sorregga uno spirito altissimo e un tenore di volontà di compiere fino all’ultimo la nostra missione di bene”[9]

L’ambulatorio fu bombardato e distrutto nel febbraio del 1943 e la sede venne spostata nel dazio di porta Venezia. Dopo l’8 settembre, a seguito dell’occupazione nazista dell’Italia, ogni attività venne sospesa e Neppi continuò a lavorare nell’ambulatorio privato di via Boscovich 30 dove viveva. Il 6 novembre le SS fecero irruzione in casa e lo arrestarono. Da San Vittore, ricorda una nipote, riuscì a far giungere un messaggio in codice alla famiglia del fratello Felice a Ferrara, raccomandando di allontanarsi a causa dell'umidità che avrebbe potuto essere dannosa. Felice con la moglie e i figli si nascose sull’appennino tosco emiliano riuscendo a salvarsi mentre la sorella Olga venne arrestata a Ferrara e deportata nel maggio successivo insieme al marito[10].

Gino venne detenuto a San Vittore fino alla partenza, il 6 dicembre, del convoglio n. 12 che giunse ad Auschwitz l’11 dicembre. Non ci sono notizie attendibili sulla data e il luogo di morte di Gino Emanuele Neppi, alcuni reduci riferirono di averlo visto nei primi mesi del 1945.

Dopo la sua deportazione la burocrazia fascista non si fermò e vennero requisiti tutti i beni che furono trovati in casa. Il 17 febbraio 1945 il credito fondiario stilò l’elenco dei beni presi in consegna. Gli oggetti elencati, nella loro nuda successione, raccontano di una vita devastata e di una persecuzione sulle cose che fu altrettanto capillare di quella contro le persone. Assai significativa la deposizione che il 4 ottobre 1944 fece la signora Mariani, rimasta a vivere nella casa di Neppi anche dopo la sua deportazione: “Dopo l’arresto del dr Gino Neppi - [...] a cominciare dal giorno 6 novembre [giorno stesso dell’arresto N.d.A.] da parte e per conto del suddetto Comando Germanico ebbe luogo, in diverse riprese, l'asportazione di gran parte delle cose mobili appartenenti al menzionato cittadino ebreo. In un secondo tempo si verificarono altri sequestri ed asportazioni da parte e per conto della G.N.R., di stanza in corso Venezia 32. Nessuno dei due Comandi ha rilasciato ricevuta delle cose asportate; esiste soltanto un “ordine di presa” degli spedizionieri Fransozini , relativo alla ghiacciaia. La sottoscritta omise di fare regolare denuncia in tempo utile, in quanto l'intervento delle “S.S:” germaniche prima e quello della G.N.R dopo, mi fecero presumere che il sequestro fossero stati autorizzati e che le competenti autorità italiana ne fossero a conoscenza”[11].

Ginevra Minerbi Neppi sopravvisse nascosta a Ponte di Legno con alcuni familiari. Tornata a Milano e avuta la certezza che il marito non fosse sopravvissuto alla Shoah tentò di avere almeno la liquidazione. Ebbe inizio un’altra lunga trafila burocratica che ebbe però esito negativo perché, come venne comunicato all’avvocato Pia Levi Ravenna, “alla vedova non può competere alcuna pensione di reversibilità in quanto l’ex dipendente rimase in servizio presso questa Amministrazione dall’1.9 1932 al 3.3 1939, data del suo collocamento a riposo, non raggiungendo così il minimo di 20 anni voluto per la concessione della pensione”[12].
Alessandra Minerbi

Archivi consultati:
  • Archivio centrale dello Stato, Roma
  • Archivio Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano,
  • Archivio Comune di Milano
  • Archivio di Stato di Milano
  • Archivio storico Intesa San Paolo, Fondo Egeli
  • Archivio privato Carla Neppi Sadun

Note:
[1] Archivio CDEC, fondo Cantoni, b. 10 f. 44

[2] Neppi risulta iscritto all’Ordine dei medici di Milano a partire dal marzo 1929, Archivio Ordine dei Medici, Elenco iscritti all’ordine

[3] Archivio di Stato di Milano, Fondo Prefettura, Gabinetto II serie, pratiche ebrei, b. 33

[4] Ivi

[5] Archivio centrale dello Stato, Ministero delle Finanze, affari beni ebraici, b. 37, f. Neppi

[6] Archivio storico Intesa San Paolo, Patrimonio Cariplo (ASI-CAR), Fondo Egeli, cartella 13, fascicolo “Neppi Gino”,

[7] Archivio CDEC, Fondo Delegazione per l’assistenza emigranti ebrei, b. 3

[8] Archivio CDEC, Fondo Cantoni, b. 10, f. 44

[9] Ivi

[10] Ringrazio Carla Neppi per avermi inviato questo testo

[11] vedi nota 6

[12] Lettera del 7 luglio 1952 all’avvocato Pia Levi,  Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, Fondo Censimento Israeliti, b. Gino Neppi




Documenti
Dispensa dal servizio di Gino Neppi, 30.12.1938, Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, Fondo Censimento Israeliti, b. Gino Neppi
Lettera del 7 luglio 1952 all’avvocato Pia Levi, Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, Fondo Censimento Israeliti, b. Gino Neppi
Elenco dei medici iscritti all’albo, Archivo Ordine dei medici di Milano